Foto di Patrizia Cortellessa - Contropiano.org |
Qual è la differenza tra Rumeni e Rom?
Dunque, provo a spiegarla in modo semplice: un rom può essere rumeno, ma un rumeno può non essere rom, allo stesso modo in cui un sardo è italiano ma un italiano può non essere sardo. I rumeni sono tutti i cittadini della Romania, i rom sono un popolo le cui comunità sono sparse in tutte Europa e che comprendono: sinti, manuś, kale (kalos), romanicels (se badate è una distinzione che fanno pure i Tazenda in una delle loro ultime canzoni).
A Oristano sono presenti comunità Rom? Quante e da quando?
A Oristano abbiamo una comunità Rom, del gruppo bosniaco dei Khorakhané (per rimanere sempre in tema di musica, sono i protagonisti della nota canzone di de Andrè). Sono musulmani anche se (a quanto ne so) non praticano. Sono stabili qui da ormai quasi trent’anni, i figli frequentano le scuole e non vivono in condizioni meravigliose. A quanto so, nessuna amministrazione si è mai occupata di fare progetti per il loro inserimento lavorativo e sociale, eppure esistono fondi (VINCOLATI!) che vengono erogati per progetti di questo tipo, che aiutano a combattere pregiudizi, a collaborare e a interagire con culture che solo in parte possono sembrare lontane dalla nostra.
A proposito di questi progetti, esistono degli esempi pratici e positivi di integrazione e che son serviti a limitare stereotipi e stigmatizzazione?
Prima di parlare di esempi di integrazione occorrerebbe fare un quadro sulla situazione giuridica italiana. Nel quadro legislativo (1) viene spesso usato il termine “nomade” che presuppone una persona che non è stabile, che non ha una dimora fissa in nessun posto, che si muove e si sposta per esigenze di vario genere. Ma i rom sono davvero nomadi? La maggior parte di loro sono stanziali da molto tempo e l’uso del termine “nomadismo” sembra solo un augurio di vederli nello stesso posto il meno tempo possibile. Per dirla con Soravia: Il nomadismo è un fariseismo linguistico travestito da democrazia (2). Altra terminologia è quella che parla di “comunità rom” al singolare, tralasciando la varietà di gruppi che ha comunque una lingua comune di base e fa parte di un’unica minoranza. E questa eterogeneità, accompagnata da una buona dose di stereotipi, causa parecchi problemi nella formulazione di buone politiche pubbliche. Tornando ai progetti, in Sardegna abbiamo una legge regionale, la 9/88 detta anche “Legge Tiziana” (3), dal nome di una bambina rom morta in un campo alla periferia di Cagliari alla fine degli anni ’80. Questo evento ha fatto in modo che si iniziasse a pensare a una legge che potesse tutelare, valorizzare le culture rom e sinte delle persone che vivono nella nostra isola. Nonostante la legge parli di fondi per l’istruzione, l’inclusione sociale e lavorativa, la maggior parte dei progetti finanziati ha riguardato la costruzione di campi nomadi, continuando quell’opera di emarginazione urbana che di certo non aiuta l’incontro e il dialogo. Poi ci sono anche esempi positivi, pochi, ma che fanno ben sperare, ad opera di cooperative ed associazioni che si occupano di diritti umani (4). Dalle sartorie alle cooperative in cui si lavora per recuperare materiali dismessi.
Quanti sono i rom in Italia?
I numeri variano dai 120 ai 150mila, di cui il 60% ha cittadinanza italiana. L’altro 40% proviene da diversi Paesi, soprattutto dell’Est Europa, e in diversi periodi, a partire dagli anni ’70 (5).
Molti sostengono che esistono culture “predisposte” a certi tipi di reato. Ad esempio va sempre di moda lo stereotipo delle “zingare” che rubano i bambini. Cosa ne pensi?
In ogni società esistono persone che compiono dei reati e altre no. Ma il fatto che uno compia quel tipo di reato non significa che i membri della sua cultura di provenienza facciano lo stesso. Il mito della “zingara rapitrice”(6) è purtroppo molto radicato in molti paesi, ma non c’è mai stato nessun caso di vero rapimento. E questo non lo dicono solo gli antropologi, ma anche i dati delle forze dell’ordine (7). Se andassimo a vedere la casistica sarebbe quasi più “normale” pensare a questo tipo di reato come tipico di noi sardi. Il caso esiste, ma non per questo si deve essere autorizzati a stigmatizzare un intero popolo. Per cercare di spiegare al meglio questo meccanismo di paura porto sempre ad esempio, soprattutto per mettere in discussione noi stessi, la sentenza di un giudice tedesco che nel 2008 tolse anni di pena a un sardo che aveva violentato la ragazza in discoteca (8). La motivazione del giudice è stata questa: è nella cultura e nell’indole dei sardi usare violenza con le donne. In molti si sono indignati, gridando al razzismo, all’ignoranza. Se facessimo questo discorso anche ogni volta che accusiamo un altro popolo per le stesse cose, avremmo fatto un passo avanti nella lotta al pregiudizio e all’ignoranza.
Come affronteresti un processo di integrazione?
Più che di integrazione parlerei di interazione (9). Nell’approccio con l’altro bisognerebbe tener conto di alcuni elementi che potrebbero evitare possibili conflitti. Mettere in discussione la propria cultura e il proprio modo di vedere, non giudicare, cercare di capire la cultura altrui, non mettersi in posizione di superiorità. In poche parole “decolonizzare” le nostre menti. Il nostro modo di vivere occidentale ha causato parecchi danni proprio perché ci siamo posti con gli altri popoli con atteggiamenti etnocentrici. La scuola, in questo processo di interculturalità, ha un ruolo importante per vari motivi: ormai è raro vedere classi in cui non son presenti alunni stranieri ed è quindi auspicabile che vengano accolti tenendo in considerazione il loro background, alimentando sia la curiosità della comunità che accoglie che la loro nei “nostri” confronti. Non sarebbe difficile se non fosse per il fatto che il contatto con lo straniero ci mette paura, crediamo che intacchi la nostra dimensione, la nostra privacy, l’identità stessa. Ma se fossimo più sicuri della nostra identità non dovremmo avere remore nel voler conoscere ciò che ci sembra diverso. L’apporto dei mediatori linguistici e culturali è di fondamentale importanza.
I media alimentano spesso il razzismo e danno un’immagine fuorviante e confusa della realtà. Si può risolvere?
L’Ordine dei Giornalisti ha approvato un codice deontologico, la Carta di Roma, che parla abbastanza chiaro. Invita tutti i giornalisti ad osservare la massima attenzione per quanto riguarda notizie su migranti, richiedenti asilo, rifugiati, tutte quelle categorie di persone che generalizzando chiamiamo stranieri. I media sono richiamati all'utilizzo di un linguaggio rispettoso nei confronti dello straniero, di un corretto uso delle fonti, di un uso imparziale dei mezzi di informazione. Lo fanno? Alcuni sì, altri no.
Quale invito ti senti di rivolgere alle istituzioni?
Mi auguro che le istituzioni, prima dell'uso della forza in nome della sicurezza, usino il dialogo perché è la base stessa della democrazia. Cercare di risolvere i problemi dall'alto non ha mai portato a buoni risultati, ma se si iniziasse anche nella nostra piccola realtà a istituire una consulta degli immigrati, dei dibattiti sulle relative problematiche, e se si cercasse di costruire un dialogo con le scuole, i servizi sociali, sanitari, e tutte le realtà che hanno a che fare con il tema immigrazione forse si inizierebbe a risolvere i problemi anche spendendo meno risorse.
Credi che Oristano e la sua amministrazione siano pronte ad accogliere questo genere di proposte?
Ricordo una campagna elettorale improntata su cultura, cambiamento, discussioni, coinvolgimento. Dobbiamo aspettare ancora?
Brava, brava, brava.
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