martedì 21 giugno 2011

Cabras, ambulanti di dieci anni con lo zainetto

di Claudio Zoccheddu (La Nuova Sardegna)

CABRAS. Con una mano tengono le collanine, con l'altra un espositore in polistirolo intarsiato di orecchini, braccialetti e bigiotteria assortita. Sulle spalle hanno uno zaino gonfio di merce dove resta appena lo spazio per una bottiglietta d'acqua e un panino. L' abbigliamento è uguale a quello dei "colleghi" ma la tunica bianca e il cappellino calato sul volto non bastano a mascherare l'età dei bimbi ambulanti che lavorano a Is Arutas, lido del Sinis.

I bambini, che dicono di avere 10 e 12 anni, arrivano in spiaggia tutti i giorni intorno alle nove e mezza del mattino, li accompagna in auto un adulto che li "scarica" al parcheggio consegnandoli a una durissima giornata lavorativa, che dovranno vivere per lo più in solitudine. Subito dopo sono già in riva al mare: si siedono sulla sabbia, giocano e scherzano come fanno i loro coetanei ma quando l'arenile si popola sono pronti a iniziare l'estenuante via vai tra un ombrellone e l'altro, a caccia della simpatia delle persone e di qualche affare da concludere sotto il sole cocente.

Si consegnano alla curiosità dei bagnanti che, senza volerlo, fanno il gioco di chi punta sulla tenera età dei venditori per guadagnare qualche spicciolo in più. Raccattano pochi euro, magari qualche banconota che per i bagnanti vale nulla o poco più ma per loro rappresenta un tesoro e, forse, non lo è solo per le mani da bambino che afferrano il faticoso frutto della compravendita da spiaggia. Infatti, almeno una volta al giorno i bimbi convergono verso un punto preciso della spiaggia dove sono attesi da un collega adulto che, dopo avere contato l'incasso lo intasca e sparisce per poi ricomparire da qualche parte a ridosso della spiaggia quando ormai è sera inoltrata, la spiaggia è deserta e la giornata di lavoro è finita.

Difficile sapere cosa ci sia dietro le quinte di questa situazione, forse una storia di povertà, forse una delle tante vicende di emarginazione che colpiscono gli immigrati alle prese con la difficile integrazione nel tessuto sociale di una nazione non sempre tollerante e spesso colpevole di non misurare col giusto peso i drammi di chi la raggiunge in cerca di un futuro migliore. I bambini di Is Arutas, però, parlano un italiano fluente, dicono di frequentare le scuole di un paese del circondario e confessano candidamente la loro età. Quando le domande si fanno più insistenti e precise si insospettiscono e tergiversano, divagano, si contraddicono e s'innervosiscono. In fondo sono solo bambini.

Le reazioni di bagnanti e turisti, invece, sono dissimili. C'è chi non ci pensa, chi ci scherza sopra, chi si scandalizza (la minoranza, purtroppo) e chi fa paragoni con realtà diametralmente opposte: «Quando mi sono trovato davanti questi bambini ho avuto un sussulto al cuore - racconta un oristanese -, mi chiedo come sia possibile che accadano queste cose. Dove sono i controlli? Possibile che nessuno si sia accorto che stiamo parlando di ragazzini che dovrebbero venire in spiaggia per giocare e fare il bagno, non per lavorare senza che nessuno li controlli? Assurdo».

A qualche ombrellone di distanza l' esame della situazione ha un esito diametralmente opposto: «Davvero voi sardi vi scandalizzate per queste cose? - domanda un turista milanese -: dalle nostre parti succedono fatti molto peggiori. I bambini, anche più piccoli di quelli che vedo in spiaggia, vengono indotti allo spaccio e alla prostituzione. Questi, in fondo, sbrigano un semplice lavoretto». Punti di vista che dimostrano come qualsiasi cosa possa essere interpretata con una chiave di lettura diversa, anche la storia dei minivenditori di Is Arutas. Dove si capisce se vi sia un confine, una distinzione tra la povertà e lo sfruttamento.

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