
E' necessario fare alcune riflessioni sulle riforme che hanno caratterizzato il mercato del lavoro e i piani di occupazione giovanile negli ultimi vent'anni in Italia, partendo da alcuni dati concreti e sfatando alcuni tabù.
I numeri parlano chiaro: tassi del 36,5% di disoccupazione giovanile (15-24 anni) e del 11,1% [1] della popolazione nel suo complesso (circa il doppio rispetto a Germania e Austria, ma in media con i tassi dell'eurozona).
Questi dati chiariscono come la gravità della situazione non sia un una tipica tragedia all'italiana, ma servono anche ad evidenziare il fatto che se si cambia la ricetta, ma non gli ingredienti, la torta non verrà buona.
I numeri dimostrano come nel nostro paese sia in corso uno scontro aperto tra generazioni, e come sia possibile che il fronte dei lavoratori rimanga spaccato. I dati dell'andamento dei redditi medi relativi indicano come dalla fine degli anni 70 a oggi aumenta il reddito relativo delle famiglie con genitori tra i 51 e i 65 anni, migliorano le condizioni del over 65, mentre peggiora gravemente quella delle famiglie con genitori sotto i 30 anni. Inoltre è sulle spalle delle giovani generazioni, che non hanno la possibilità di accumulare risparmi, che grava il peso di un enorme debito pubblico causato in gran parte per garantire i privilegi delle generazioni attuali.
Ripercorrendo un po' di storia, intorno agli anni 90 col crescere della disoccupazione in Europa, venne varata una sorta di "strategia europea per l'occupazione", volta a rafforzare la flessibilità del lavoro, passando da un piano di politiche passive a uno di politiche attive volte a promuovere le capacità di inserimento professionale. In Italia il primo provvedimento è il pacchetto Treu del 97 (dal nome dell'omonimo ministro del lavoro del governo Prodi I) che riguardava l'istituzionalizzazione e la regolamentazione degli istituti dell'apprendistato e del lavoro interinale. Successivamente ripresa dalla legge Biagi del 2003 che favorì lo sviluppo di nuove tipologie di contratti: contratto a progetto, contratto di inserimento, lavoro ripartito, apprendistato, part time etc...
Ma quali effetti ha avuto la flessibilità sul nostro mercato del lavoro e sui livelli occupazionali?
Questi dati si riferiscono al periodo precedente alla crisi che stiamo attraversando, ma indicano chiaramente come le riforme del lavoro abbiano influito negativamente sui tassi di occupazione, senza contare la riforma Fornero del 2012.
Inoltre dal 2004 al 2011 l'incidenza delle occupazioni precarie è aumentata negli under 35 dal 20% al 39%, i salari dei lavoratori precari sono inferiori fino al 20/30% rispetto a quelli dei lavoratori con contratti standard, le tutele non sono estese in caso di scadenza di contratto, i contributi previdenziali sono più bassi, e in ultimo le imprese non investono sulla formazione dei giovani lavoratori in quanto è molto probabile che a breve li licenzieranno. L'assunto fondamentale che un lavoro precario è meglio di nessun lavoro si dimostra sbagliato e punitivo nei confronti dei giovani lavoratori, perché piuttosto che essere una porta d'ingresso e un trampolino verso il mondo del lavoro, rappresenta una forma di schiavitù da cui è difficile liberarsi.
Quanto influisce il grado di istruzione sulla mobilità sociale e quindi sulla possibilità di trovare un posto di lavoro e sul tipo di posto di lavoro?
L'istruzione in Italia non rappresenta un fattore di mobilità sociale e di attenuazione delle differenze di classe. Infatti la possibilità di passaggio da una fascia sociale ad un'altra in termini percentuali in italia è del 17,6% dal primo al secondo quartile e del 15,9% dal secondo al terzo quartile, contro il 24,8% e il 24,5% della Danimarca. Un altro dato importante è che lo status sociale e il titolo di studio dei genitori è molto influente sulle future scelte del figlio, infatti chi ha genitori laureati tenderà maggiormente a laurearsi, mentre chi ha genitori con titolo di scuola primaria o secondaria superiore tenderà ad abbandonare prima gli studi (60% è il tasso di dispersione scolastica in Italia). Il tasso di laureati in italia è dell'11% circa contro il 25% della media dei paesi OCSE e del 23% nei 19 paesi dell'Unione membri OCSE.
E' pur vero che un titolo di studio più alto non garantisce salari più elevati, infatti la maggiore retribuzione dei laureati rispetto ai diplomati è dell'81% negli Stati Uniti del 74% nel Regno Unito del 67% in Francia del 61% in Germania e del 38% in Italia. In Italia il passaggio dall'istruzione inferiore alla laurea riduce il rischio disoccupazione dal 14,3% all'11,2% contro la media europea che va dal 14,,4% al 5,9%.
Da questa analisi esce un quadro definitivamente negativo, e i dati ci indicano che la situazione è in continuo peggioramento. Continuiamo a chiederci quale sia il ruolo dell'istruzione e se abbia ancora un senso finanziarla. La risposta la troviamo nei dati, in quanto l'Italia è uno fra i paesi più in crisi della zona euro ed è anche un paese con i tassi peggiori nei livelli occupazionali, di reddito e di istruzione, ma è anche uno tra quelli che spende meno in rapporto al PIL per l'istruzione.
Tranquilli non sarà Letta a salvarci, io piuttosto mi affiderei alla cultura, all'istruzione e a tutto ciò che vi gravita intorno, poiché è risaputo che oltre a rendere un paese più efficiente, diminuire i tassi di criminalità, diminuire le disuguaglianze, favorire l'integrazione, aumentare le rendite e i salari, generare esternalità positive, l'istruzione rappresenta un fattore di crescita individuale e quindi collettiva.
ISTRUITEVI!
(D.S.)
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